Il pensiero della natura
Un’opera di Flavio Paolucci ci chiama a un esercizio di equilibrismo, un po’ come si presentano alcune sue installazioni sospese. Di fronte alle forme e ai colori trovati nei boschi e riportati dall’artista sulla tela o nello spazio, ci sentiamo coinvolti in un dialogo tra la casualità della produzione naturale e il pensiero che astrae, che evoca, che trasforma l’accidente di un ramo contorto in metafora di una condizione, al contempo, personale e universale. Con Paolucci memoria ed esplorazione si riflettono l’una nell’altra. Le sue opere ci appaiono aprirsi su più percorsi; come i segnavia lungo i sentieri, sembrano dirci che là fuori c’è dell’umano, ma che può esprimersi solo attraverso i segni creati nel mondo.
Nato nei giorni del solstizio d’estate di 87 anni fa, Paolucci è un sole artistico che continua a emanare la sua luce.
L’abbiamo incontrato nel suo atelier a Biasca, durante le pause delle riprese di un film sulla sua opera diretto dal regista Villi Hermann. La parete è coperta da una nuova opera, di fianco alla poltrona una cesta con decine di pipe. Paolucci ne sceglie una, la stringe nel palmo e inizia a rispondere alle nostre domande.
Ha sempre sognato di fare il pittore?
“Sì, da quando avevo tre anni, ma all’epoca per me voler fare il pittore, significava fare l’imbianchino…”.
La sua era una famiglia di artisti?
“No, mio padre faceva l’operaio, non eravamo una famiglia agiata. Un mio avo era immigrato da Urbino”.
La patria di Raffaello…
“Non credo ci siano parentele. In me però la vocazione per l’arte era forte, perciò scelsi di frequentare la scuola cantonale di decorazione e poi iniziai a lavorare all’Atelier Oscar Bölt a Locarno”.
Poi ha scoperto l’Accademia…
“Sì, mi iscrissi a Belle Arti a Brera, a Milano. Il mio punto di riferimento era la tradizione sironiana. Iniziai con dipinti figurativi, poi negli anni Sessanta con le esperienze a Parigi e in Marocco sono passato a un naturalismo astratto, successivamente ho continuato a sperimentare e a confrontarmi con gli sviluppi dell’arte contemporanea”.
Come l’Arte Povera…
“Senz’altro è un movimento al quale mi sono sentito molto affine”.
Nella sua opera il richiamo agli elementi naturali è sempre presente, perché?
“Sono nato in valle di Blenio, in mezzo alla natura. I miei ricordi d’infanzia sono legati ai boschi, ai racconti di paese, a un mondo per il quale la natura era la regolatrice dei tempi di vita. Per questo la mia ispirazione nasce da una passeggiata, da quello che mi comunica un ramo trovato sulla riva del fiume o camminando fra gli alberi. Foglie, tronchi, uova d’uccello, ogni elemento naturale può diventare fonte d’ispirazione”.
Il richiamo alla natura è presente nelle forme ma anche nei materiali, nelle tinte…
“Sì, ho sempre cercato di utilizzare colori che richiamassero quelli naturali o che lo fossero. Da qui l’utilizzo di tinte estratte da prodotti naturali, come le noci, oppure l’uso della fuliggine presa dai camini, che rappresenta il fuoco e quindi la natura che l’uomo tenta di domare. Inoltre, nel sacro arcaico, la canna fumaria era considerata quella che consentiva alle anime dei morti di liberarsi in cielo. Anche la carta che uso per le mie opere è una carta artigianale prodotta in Nepal utilizzando il legno di un piccolo arbusto che cresce in quella zona. Ha un’ottima resa, dona materialità e naturalità alle opere”.
In alcune sue opere vi è invece il richiamo alla forma della natura ma poi avviene la sua trasformazione in metallo.
“Sì, i rami o le forme naturali che mi ispirano vengono trasformati in calchi e poi diventano sculture in bronzo”.
Un modo per rendere eterna l’idea contenuta in quell’oggetto naturale?
“Certo, parto da una forma che richiama la natura, visto che proviene da essa, ma che è in grado di evocare anche altre associazioni di idee, pratiche od emozioni umane. Un inchino, un abbraccio, uno sforzo”.
La sua arte è un lavoro di sottrazione?
“Sì, cerco di ricostruire un mondo partendo dall’essenziale, dalle cose elementari. Le forme, le linee, lo spazio, i contrasti, i materiali. Offro materia e simbolicità, nei quali il fruitore dell’opera può trovare echi ed assonanze del proprio rapporto con la natura e la cultura. È l’invito a un percorso”.
Opera nel campo dell’arte da quasi settant’anni, è cambiata la sua ispirazione, la sua voglia di dipingere, di creare?
“Devo dire che la voglia di esprimermi con l’arte e il desiderio di comunicare emozioni e visioni sono rimasti uguali a quando ho iniziato. È una delle cose belle di essere artisti, fai quello che ti piace fare, che senti come vocazione ,ed è una cosa sulla quale il tempo non influisce”.
Ha avuto degli allievi?
“Nel corso degli anni sono passati molti giovani, ma nel mondo dell’arte è difficile avere degli allievi, poiché ogni artista reinterpreta a suo modo, con la propria sensibilità, storia, cultura e tradizione, quello che apprende dai maestri”.
Il mercato dell’arte è cambiato?
“Certamente, il ruolo della critica e dei galleristi è mutato. C’è una maggiore attenzione a un’arte pop, di gusto maggiormente immediato. Io però continuo nella mia ricerca e non ne sono assolutamente influenzato”.
La sua ultima esposizione?
“Nel 2021 il Museum Art.Plus di Donaueschingen, in Germania, nella zona della Foresta Nera, mi ha dedicato una personale con opere degli anni Novanta e Duemila”.
Sfogliamo il catalogo, ci fermiamo a pagina 36. C’è una cornice vuota attraversata da una linea verticale che prosegue in una corda che, sotto la cornice, sostiene un’asta. Il titolo è “Il filo dell’acrobata”. A lato una frase: “L’acrobata ama percorrere la sua fune all’infinito”.
Ci limitiamo ad aggiungere: anche l’artista Flavio Paolucci.
Flavio Paolucci
Anno di nascita: 1934
Professione: artista
Nato a Torre, nella ticinese Val di Blenio, Paolucci dopo aver frequentato la Scuola Cantonale di pittura di Lugano (1949–1953) e lavorato presso l’Atelier Oscar Bölt a Locarno (1955), si iscrive all’Accademia di Brera a Milano (1955–57). Sotto l’influenza di Aldo Carpi studia Mario Sironi, Achille Funi e apprende la tecnica dell’affresco. Esordisce con la prima mostra personale nel 1958, anno in cui consegue anche il primo premio alla Biennale dei Giovani di Gorizia. Nei primi anni ’60 compie alcuni viaggi di studio. A Parigi, nel 1961, riceve il secondo premio all’Esposizione Internazionale dell’Unesco. Nel 1964 risiede per un anno in Marocco, dove scopre una dimensione totalmente diversa dello spazio e del tempo; nel 1967 rinnova l’esperienza marocchina. Dal 1968 vive nel suo atelier alla periferia di Biasca. Prima personale in un museo e prima monografia nel 1984 (Olten, Kunstmuseum); importanti retrospettive a Lugano (1988 e 2014), Locarno (1993) e Milano (1995). Tra le sue personali si segnalano inoltre quelle al Centre Culturel Suisse di Parigi nel 1987 e nuovamente al Kunstmuseum di Olten nel 2000.