Un po' di pazienza
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Story

Il "mister" con il regolo

L’ingegneria ed il pallone. Se si dovesse trovare un elemento in comune si potrebbe dire la geometria. Da un lato quella dei calcoli fatti un tempo con il regolo, dall’altro quella invisibile di schemi e movimenti sul campo da calcio. Di certo, nel mondo dell’iperspecializzazione e del professionismo, paiono due mondi distanti. Invece, esiste chi per un lungo periodo ha saputo viverli assieme, ottenendo soddisfazioni in entrambi i campi. 

Oggi, a 60 anni, la scelta è caduta su una sola e non poteva essere diversamente visto che parliamo dell’uomo che ha portato la nazionale svizzera under 21 alla finale europea (2011), che l’ha allenata nell’unica partecipazione olimpica (2012) e che ora è direttore delle squadre nazionali dell’ASF (Associazione Svizzera di Football). Lui è Pierluigi Tami, per tutti Pier, e l’abbiamo intervistato.

C’è chi trascorre la vita tenendosi un piano B professionale, lei invece ha iniziato subito con tutti e due i piani.

“Ho sempre amato il calcio, ma quando giocavo, negli anni Ottanta in pochi potevano vivere di solo calcio in Svizzera. Quando ero al Chiasso ci allenavamo tutti i giorni nel tardo pomeriggio, proprio perché tutti avevano un’altra attività. Solo verso la fine della carriera di calciatore, lo sport era diventata la mia attività più redditizia”.

 

L’altra qual era?

“Disegnatore, in particolare di impianti di riscaldamento. Quando smisi l’attività agonistica da calciatore, decisi di aprire un’attività per conto mio, a Gordola. Nel frattempo mi iscrissi alla SUPSI e ottenni il titolo di consulente energetico”.

 

E non rimase solo…

“No, creai uno studio di ingegneria, entrarono altri professionisti, poi facemmo una prima fusione con lo studio Cometta di Mendrisio e, successivamente, con la IFEC di mio fratello Sergio. Quando la vita da allenatore professionista non mi consentii più di seguire l’attività lasciai, ma ormai eravamo una realtà con 80 collaboratori”.

 

Già, perché l’amore per il calcio però non era venuto meno, aveva smesso come calciatore ed era diventato un “mister”.

“Anche in questo caso iniziai ad allenare nella squadra di paese, in Quarta Divisione. La professione era tornata a essere l’entrata principale. L’allenare, però, abbastanza repentinamente, salendo di categoria, mi richiese sempre più tempo. Fu così che, attraverso le fusioni con altri studi, riuscii a dare continuità all’attività, rimanendo azionista”. 

 

Calciatore e ingegnere, c’è qualche similitudine?

“Qualsiasi professione, anche se tecnicamente può essere completamente differente, parte dalle persone. Il successo di uno studio di ingegneria o di una squadra di calcio si fonda sulle stesse basi: tu puoi crescere se riesci ad avere una gestione delle persone, tale da creare un ambiente di lavoro sano e positivo”. 

 

Non solo competenze tecniche ma anche relazionali, dunque?

“Le competenze tecniche servono, altrimenti non duri, ma la differenza la fa la capacità di management. Così ho sempre portato la mia esperienza di allenatore nei due campi. Sia un calciatore, sia un ingegnere, come chiunque altro, ha ambizioni, obiettivi personali, bisogno di essere riconosciuti e di avere un ruolo. Occorre sapere riconoscere tutto ciò e incanalarla. Così, ho portato una certa rigidità da ingegnere nel calcio, perché anche lì servono regole, e lo spirito competitivo nello studio, perché serve a migliorarsi”.

 

Quali sono state le sue più grandi soddisfazioni nei due ambiti?

“Nello studio d’ingegneria è stata quella, in un periodo nel quale era difficile conciliare le due attività, di essere riuscito partendo dall’aver aperto uno studio con un tavolo a essere arrivato a creare con gli altri uno studio riconosciuto in Ticino per affidabilità e competenza con 80 collaboratori. E oggi mio figlio Alessandro, è a capo del settore impianti termo-climatici , in una realtà che continua a operare in tutta la Svizzera e anche in Europa”. 

 

E nel calcio? 

“Dal punto di vista calcistico, le soddisfazioni ci sono state sia da giocatore, ma anche da allenatore, che sono due aspetti differenti dello stesso mondo. Si può essere grandi calciatori, ma non necessariamente essere un grande allenatore, che deve avere doti di management e capacità di gestione delle aspettative. Nel calcio tutto è veloce, ogni settimana si aspettano dei risultati, non solo a fine anno. La pressione è maggiore. Comunque i risultati più belli penso siano stati raggiungere la finale europea con l’Under 21 e qualificarsi dopo 84 anni ai Giochi olimpici. E anche ora c’è la sfida di portare avanti nuovi progetti con le squadre nazionali”.

La differenza tra allenare un club e la Nazionale?

“C’è una grande differenza. L’allenatore del club oltre a gestire il gruppo, ha la facoltà di cambiare o migliorare il giocatore. Perché ci lavori assieme tutti i giorni. Al di là dei risultati sul campo, che sono importanti, puoi mostrare anche il tuo lavoro valorizzando e aumentando il valore dei giocatori della tua rosa. Soprattutto in Svizzera oggi devi far calcio per raggiungere obiettivi sportivi che ti danno introiti, ma soprattutto valorizzare il settore giovanile affinché entrino nelle squadre maggiori e possano essere venduti all’estero portando risorse alla società”.

 

E in Nazionale?

“I giocatori arrivano ma non può cambiarli. Il tuo ruolo è soprattutto nella gestione. In pochi giorni devi avere in chiaro come farli giocare al meglio. Devi essere soprattutto un bravo stratega-tattico. Capire i punti deboli dell’avversario, sapere come vuoi far giocare la tua squadra e vestirle addosso il vestito migliore”.

 

Un giudizio sugli Europei?

“Positivo, perché abbiamo fatto un risultato che da anni si attendeva, raggiungendo i quarti di finale dopo aver buttato fuori i campioni del Mondo della Francia. E con la Spagna si è usciti dal torneo, ma a testa alta. Puoi accettare la sconfitta se sai che hai dato fondo a tutte le tue energie e le tue capacità. E la squadra, dopo un primo momento di assestamento, devo dire che ha dato veramente tutto”.

 

Ha inciso anche la formula itinerante, che vi ha visto più di altri macinare chilometri tra una partita e l’altra?

“È un dato di fatto. Noi non l’abbiamo mai detto, perché non volevamo che potessero scattare meccanismi di giustificazione nel caso di risultati negativi, ma alla fine, se si guardano le semifinaliste, si scopre che sono le squadre che hanno viaggiato di meno, poi ovviamente sono state brave. Si può anche fare una formula nella quale si gioca in più nazioni, ma non possono essere distanti 2’000 chilometri, con trasferte come quelle di Baku, spostando un gruppo di 50 persone, con cambiamenti di clima e di fuso orario”.

 

Adesso inizia un nuovo corso.

“Petkovic ha portato avanti un progetto che ha prodotto un calcio molto interessante e con continui innesti di giovani di valore. Ora Yakin arriva ricco di un’esperienza di grandi successi internazionali con il Basilea, penso che nessuno abbia portato un club svizzero così avanti in Europa. Inoltre conosce l’ambiente della Nazionale, avendo avuto in passato una cinquantina di presenze da giocatore. Senz’altro porterà avanti il lavoro fatto negli ultimi anni”.

In fondo, il segreto per farlo ce l’ha rivelato Tami. Mettere al centro le persone, curare le relazioni, gestire i rapporti, creare un ambiente sano e positivo. Con qualche buona regola da ingegnere.

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Pierluigi Tami
Anno di nascita: 1961
Professione: direttore delle squadre nazionali dell’ASF

 

Formatosi sportivamente nelle file del Tenero, ha successivamente vestito le maglie di Chiasso, Locarno, Bellinzona e Lugano. Nel 1994 l’addio al calcio giocato. Negli anni Novanta inizia la carriera di allenatore nel Gordola, poi è a Lugano come vice e allenatore delle giovanili. Dopo una parentesi sulla panchina del Locarno, torna sulle rive del Ceresio ad allenare la prima squadra. Nel 2003 entra nel giro delle Nazionali. Porta l’Under 21 alla finale europea e al torneo olimpico. Dal 2015 al 2018 torna ad allenare club: prima il Grasshoppers e poi il Lugano. Dal 2019 è direttore delle squadre nazionali della Svizzera. L’attività sportiva è stata lungamente affiancata a quella professionale con uno studio di ingegneria che è diventato negli anni da Tami e Associati a Tami e Cometta, per poi fondersi in IFEC.

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