Il mondo in un calice
Conoscere una persona non significa solamente ricordarsi i colori degli occhi, il suono della voce o il profumo della pelle, vuol dire sapere la storia, i sentimenti, le emozioni, le passioni, i sacrifici e i successi che si porta dentro. Per il vino vale la stessa cosa, non basta indicare che è rosso rubino, ha sentori di spezie e scorza d’arancia o che è tannico, bisogna conoscerne la storia, il territorio che l’ha prodotto, la cantina che l’ha concepito e realizzato. Solo così si diventa sommelier e non dei semplici ripetitori di manuali. A spiegarcelo è Davide Comoli. A degustare e proporre vini ha trascorso una vita e ora mette a disposizione la sua esperienza per formare nuovi esperti di vino per l’Association Suisse des Sommeliers Professionnels. In Svizzera quella del sommelier è una professione riconosciuta solo recentemente e che sta riscontrando molta attenzione.
Da piccolo sognava di fare il sommelier?
“Sin da piccolo ero appassionato di storia e geografia, avrei voluto fare l’ufficiale di marina o l’archeologo e viaggiare per il mondo. Le condizioni familiari mi costrinsero però a dover lasciare i corsi di studi per cercare un’occupazione. Fu così che iniziai a fare il barman, a lavorare nel settore della ristorazione e dell’hotellerie, sulle navi da crociera. Mi piaceva perché mi consentiva di girare in moltissimi Paesi, di visitarne musei, di vederne i monumenti. Poi nel 1977, con un compaesano di Briga Novarese, ho iniziato al Grotto Antico di Bioggio e mi sono stabilito nella Svizzera Italiana. Però credo che la mia vita con il vino sia quella di un predestinato”.
In che senso?
“Sono nato il 16 ottobre, nei giorni di vendemmia, nelle Colline Novaresi, terre di vigneti. Mio nonno mi prese in braccio e mi portò con lui in cantina e io caddi dentro nel tino dove fermentava il mosto. Per diversi giorni pensarono che non ce l’avrei fatta, ma sopravvissi. Insomma, sono un po’ come Obelix, solo che invece che nella pozione magica sono caduto nella Vespolina”.
L’incontro consapevole con il vino quando è stato?
“Sino a 14 anni il solo odore mi dava fastidio. Poi mi ricordo che per la festa di San Colombano a Briga Novarese presi una sbronza di freisa dolce, mi servì a non dimenticare che con il vino non bisogna esagerare. Negli anni mi sono poi sempre più specializzato, arrivando a frequentare il corso di Scienze gastronomiche e diventando un sommelier professionista”.
In Svizzera, sino a pochi anni fa non era una professione riconosciuta, è corretto?
“Sì, fino al 2015 nei contratti di lavoro non esisteva la parola sommelier. Grazie ai corsi organizzati da noi dell’ASSP (Association Suisse des Sommeliers Professionnels), presieduta da Piero Tenca e di cui io presiedo la didattica, oggi vi è un riconoscimento a livello federale. Occorre ringraziare anche Gianni Moresi per il lavoro svolto per il riconoscimento dell’APF Attestato Professionale Federale di Sommelier/ère. Questo riconoscimento è stato importante perché ha aperto una possibilità occupazionale in più per molti giovani, a partire dalle donne. Le donne devo ammettere che, in media, sono molto più brave a percepire profumi ed essenze”.
Il sommelier dev’essere uno scienziato del vino?
“Senz’altro occorre conoscere le caratteristiche organolettiche di un vino, i principi chimico-biologici che sono alla sua origine e occorre essere sempre aggiornati, ma deve avere anche altre capacità, innanzitutto quella di saper leggere la psicologia del cliente, anche solo dal modo di porsi, a una prima occhiata”.
Come quando arrivano richieste di abbinamenti bizzarri?
“Sì. Bisogna essere umili, mai imporsi. Consigliare e rispettare. Ricordo che anni fa arrivò un facoltoso cliente in compagnia di una bellissima donna, probabilmente voleva fare colpo e ordinò il vino più caro in lista: un Sauternes da oltre 400 franchi. Gli dissi che non era l’abbinamento migliore. Lui rispose: lei mi porta quello che voglio. Glielo portai, mi disse che era dolce. Gli spiegai che era una caratteristica del vino. Mi chiese di cambiargliela. Insomma, alla fine il cliente è libero di scegliere, basta che paghi per le sue scelte”.
Il compito del sommelier si esaurisce in sala?
“Assolutamente no. Oggi il sommelier dev’essere un piccolo manager del settore enologico, deve saper gestire gli acquisti, le selezioni e il magazzino dell’azienda, intendersi di marketing, aggiornare la carta dei vini”.
Un giudizio sull’enologia ticinese?
“Negli ultimi anni ha fatto progressi enormi e ci sono molti giovani che sono tornati alla terra e hanno portato cultura e novità. Però ci sono dei limiti dettati dalla presenza di un elevato numero di produttori, circa 400, in un piccolo territorio. Inoltre, vi è il costo della materia prima, su cui incide il costo del lavoro: un chilo di Merlot in Veneto costa 25/30 centesimi, in Ticino 4 franchi. Alla fine il prezzo alla bottiglia è nettamente più alto, così accade che nei bar e nei ristoranti se chiedi un bianco ti propongono un bicchiere di Lugana o di Arneis anziché di bianco di Merlot ticinese. Invece, nel Vallese o nel Canton Vaud le carte dei vini sono al 90 per cento con etichette locali. Le racconto un aneddoto”.
Dica pure…
“Per dieci anni con lo chef Alan Rosa e altri partecipavamo a trasmissioni televisive, un giorno ero al supermercato a Tenero e un cliente mi riconosce e mi dice: complimenti, però dovete parlare di più del Merlot ticinese, gli rispondo che ne parliamo spesso ma ovviamente il mondo del vino è più vasto, poi mi cade l’occhio nel carrello e vedo che ha due bottiglie di Nero d’Avola. Gli dico, però vedo che lei non beve il Merlot? Mi risponde che è vero, che prende l’altro perché costa meno. Insomma, a livello ideale siamo tutti d’accordo che dovremmo preferire il km0, però poi si guarda anche il portafogli, oltre ai gusti personali”.
Quali sono i vini emergenti da seguire maggiormente?
“Fuori Europa trovo eccezionali alcuni Malbec argentini, ovviamente parliamo di bottiglie da 35-40 franchi in su. Sono stati una scoperta, durante un viaggio lungo il Danubio, i vini di Romania e Bulgaria. Poi la Svizzera custodisce dei piccoli gioielli eccezionali. Recentemente nella cantina di Morges ho assaggiato un grandissimo Pinot Nero, ma è pieno di realtà simili nel Giura, o in altri Cantoni da Sciaffusa a Neuchâtel, piccoli produttori che magari fanno solo 1’500 o 2’000 bottiglie di Pinot grigi o Riesling incredibili”.
Non le è mai passata la voglia di viaggiare?
“No. Penso che il sommelier debba essere come un archeologo, un esploratore, debba continuare a cercare piccoli grandi gioielli nascosti, quei produttori che non sono famosi ma che fanno vini eccezionali come quelli più blasonati. Inoltre, penso che solo viaggiando, facendo esperienze nei territori di produzione un sommelier possa raccontare di un vino anche la cultura da cui nasce, le emozioni e i ricordi che evoca. Il vino è un compagno di viaggio e come spostarsi con le Muse, dentro troviamo storia, poesia, teatro, musica. Quando facevo le carte dei vini, abbinavo sempre una carta geografica, un detto popolare, un aneddoto, una storia, qualcosa che restituisse molto di più di una descrizione tecnica. Perché il vino è cultura”.
Pronto a ripartire?
“Ho fatto sette volte il giro del mondo. Gli unici posti in cui non sono stato sono la Nuova Zelanda e il Sud dell’Australia. Spero di poterci andare in un prossimo futuro”.
Le avventure dell’esploratore Comoli continuano: il sogno del bambino che era, dopo circa 70 anni, brilla ancora nei suoi occhi.
Davide Comoli
Anno di nascita: 1948
Professione: docente corsi sommelier Assp
Nato in provincia di Novara, dopo una carriera internazionale nel settore della ristorazione e dell’hotellerie, nel 1977 inizia l’attività al Grotto Antico di Bioggio. Si perfeziona in Scienze gastronomiche e diventa sommelier, dando impulso al riconoscimento della professione in Svizzera, attraverso i corsi tenuti per l’Associazione Suisse des Sommeliers Professionnels. Ha pubblicato i volumi DeGustibus, La Roma Imperiale a Tavola, Il Rinascimento a tavola, Quando d’Artagnan beveva Barbera e Il Rinascimento a tavola.
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